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Crowdsourcing: è il futuro della creatività?

Inizio oggi una personalissima indagine, stimolata da qualche mail e da una piccola discussione nata su Facebook, intorno al tema del crowdsourcing, attuale mai come oggi. Il termine significa letteralmente "esternalizzare (un lavoro o parte di esso) ad una folla": ovvero, affidare lo sviluppo di un progetto, un prodotto o un servizio ad un insieme di persone esterne all'azienda. Di crowdsourcing, in realtà, si parla dai tempi dei primi esperimenti web 2.0: la stessa Wikipedia è un esempio di crowdsourcing "volontario". Cominciamo con qualche piccola introduzione - le polemiche, i dubbi e le perplessità in merito al processo (e sono tanti) le lascio per il prossimo post.

Cos'è il crowdsourcing.
In ambito creativo, il crowdsourcing sta vivendo il suo periodo d'oro. Essenzialmente, ruota attorno a piattaforme web con tre soggetti principali in gioco: una community (ad iscrizione gratuita) di grafici, fotografi, designer, autori, videomaker di ogni livello di esperienza ed età; il mediatore del servizio, ovvero il gestore della piattaforma, in particolare nella figura del community manager; e infine, l'azienda che commissiona il progetto. Quest'ultima lancia un contest, con un brief preciso in cui si evidenziano oggetto del concorso, target, tecniche stilistiche, tempistiche, storia dell'azienda e tutto ciò che serve a realizzare quanto richiesto. Il contest prevede, nella maggior parte dei casi, un premio in denaro.
La community, a questo punto risponde: produce proposte, le carica su un database visibile a tutti gli iscritti e inizia a votare le proposte migliori. Al termine della gara, l'azienda sceglie la proposta migliore e paga il vincitore. Spesso, la community e i gestori della piattaforma premiano a loro volta la proposta più votata, anche quando non è quella selezionata dal committente.

Chi ci guadagna?
Apparentemente, tutti. Ci guadagna l'azienda che commissiona il progetto, investendo un budget minimo rispetto alla quantità di proposte tra cui scegliere; ci guadagnano i creativi (soprattutto quelli alle prime armi) che prendono soldi quando vincono e visibilità quando partecipano; ci guadagna, ovviamente, la società proprietaria della piattaforma dove si svolge il tutto.

Due esempi tutti italiani.
In Italia, due sono le realtà simbolo del crowdsourcing creativo.
Il primo è Zooppa, nata in seno alla H-Farm di Treviso ma con sedi in Brasile e Stati Uniti. Conta oltre 50.000 iscritti da tutto il mondo, e ha lavorato con Google, Coin, Nestlé, Poste Mobile, Microsoft, Best Western.
Il secondo è Bootb: ideatore e amministratore delegato è Pier Ludovico Bancale e tra i suoi soci ci sono il numero uno di Bulgari e Teuco-Guzzini. Bootb conta più di 27 mila creativi iscritti da quasi 150 paesi del mondo; tra le aziende committenti ci sono Auchan, Disney, Lego, Unilever e Universal Picture.

Perché rivolgersi al crowdsourcing?
Jeff Howe è l'uomo dietro la parola "crowdsourcing", da lui coniata nel 2006 su un famoso articolo apparso su Wired (US, naturalmente). Lui stesso ha dichiarato: "La quantità di conoscenza e talento dispersa nell'umanità sarà sempre maggiore della nostra capacità di sfruttarla. Il crowdsourcing può correggere questa dispersione". Su Shannon ho recuperato un interessante commento di Alessandro Cappellotto, community manager di Zooppa, da cui riporto gli spunti principali.

I risultati che Zooppa offre ai brand sulla piattaforma sono:
1. I contenuti creati dai membri della community offrono all’azienda numerosi spunti di riflessione a livello creativo e possono essere riutilizzati (in base agli accordi sottoscritti con noi) per azioni di comunicazione contestuali o future.
2. La viralità può nascere sia dal contenuto stesso, capace di propagarsi spontaneamente, sia - più spesso - dal naturale meccanismo di condivisione messo in atto dagli utenti, i quali postano i propri lavori nei social networks e nelle piattaforme di content sharing per chiamare i propri contatti e visitatori al voto o semplicemente per cercare visibilità o raccontare di sè, parlando delle loro ultime creazioni per questo o quel marchio nelle loro conversazioni on e off-line. In più, noi stessi uplodiamo negli account Zooppa registrati sulle principali piattaforme di condivisione (da Youtube a Facebook a Vimeo ecc) i contenuti della nostra community.
3. Il percepito del brand emerge dai commenti, dalle conversazioni che si fanno su Zooppa intorno al marchio oggetto del contest, nonchè dalle associazioni di pensiero ricorrenti nelle pubblicità generate. L’azienda può interpretare il contest come un grande “focus group” intorno al suo nome.
4. La relazionalità: il brand si mette nelle mani delle persone, si presta alla loro manipolazione, diventa tema delle loro conversazioni, si pone volontariamente su un piano alla pari. Per le aziende, Zooppa diventa l’opportunità di entrare in contatto con persone di valore, di scoprire talenti o anche di poter iniziare a costruire una propria community creativa, di impostare una strategia di tribal marketing, di “rompere il muro” che separa tutte le aziende dai suoi consumatori-osservatori per entrare in contatto diretto, stimolando simpatia e affezione attorno al suo nome.

Personalmente credo che Zooppa non basti a se stessa e che una strategia di marketing dovrebbe prevedere una panoplia di strumenti più vasta. Ritengo però allo stesso tempo che Zooppa possa essere davvero il perno strategico di una campagna di comunicazione che metta realmente al centro la relazione con il “pubblico”, consumatore e produttore di senso, in un’ottica di brand awareness.


Quindi: moltissimi contenuti innovativi con alta propensione alla viralità, un focus-group sempre attivo sul progetto ed elevata relazionalità azienda-creativi. È dunque il paradiso della comunicazione? Il futuro dell'advertising? L'Eldorado della creatività? Forse. Ma non è tutto oro quello che luccica, e lo vedremo dalla prossima volta.